Uso le immortali parole di Albano per sottolineare il collegamento tra fertilità e felicità, che il Ministero della Salute si affanna a ricordarci. Tutti quanti ci siamo imbattuti recentemente nella campagna Fertility Day del ministro Lorenzin e nelle parodie dedicate a questa infausta iniziativa, pensata male e comunicata peggio. Eppure anche senza questo “aiuto di stato”, le paroline fertilità e orologio biologico passano spesso nella testa di tutti noi, maschietti e femminucce.
Ammetto che ogni tanto ho anche io il desiderio di avere un pupetto al quale tramandare tutto il mio immenso sapere prima di abbandonare questa terra. Un pargolo nel quale riconoscere i miei tic e le mie fissazioni, i miei occhi e il mio sorriso, sapendo già in anticipo quali sono i maggiori problemi psicologici che vorrei risparmiargli e le sicurezze che vorrei tentare di dargli.
Ma occorre essere spietatamente sinceri con noi stessi: probabilmente se non abbiamo figli e abbiamo passato gli “anta”, forse non li vogliamo così tanto. Certo, magari non è capitato, magari ci sono state tante rogne, magari bla bla bla, ma non dobbiamo per forza credere che l’istinto di maternità o paternità sia “obbligatorio”. E a mia difesa posso portare sul banco dei testimoni un sacco di padri pirla e inadeguati che probabilmente avevano come unico istinto quello di comprare preservativi bucati.
The infamous singles
Ma forse è il contrario. Forse pensiamo che non sia giusto mettere al mondo qualcuno per placare il ticchettìo di un orologio. Forse non crediamo che un figlio sia un obiettivo da raggiungere a prescindere, bensì la naturale evoluzione di una situazione incredibilmente giusta.
E non vediamo generosità nelle coppie che partoriscono figli come toppe per rappezzare matrimoni sbagliati, che li usano come fanti in partite a scacchi divorziste, che li trascurano senza neanche comprenderlo.
Non siamo nè migliori nè peggiori, semplicemente non misuriamo la nostra vita e il nostro lascito al mondo solo in base all’eredità genetica che lasciamo. Ci teniamo dentro qualche rimpianto, a volte flebile a volte struggente, ma non abbiamo bisogno che qualcuno ci metta l’orologio all’orecchio per ricordarci che the time is over e che ci tratti come delle opere incompiute. Forse siamo compiuti così, fatevene una ragione.